Non c'è scrittore italiano più totalmente
carnale di Giovanni Testori: nelle immagini e genericamente nei contenuti ma più
in particolare nella stessa tessitura verbale che veicola quelle immagini e quei
contenuti.
Sin dalle prime prove poco note, come i testi
teatrali degli esordi, viene esaltato il potere salvifico della evidenza
materica e si direbbe della oscenità figurale.
In Tentazione del convento,
un'opera drammaturgica dei primi anni Cinquanta, è già questo
il timbro: vi compaiono ferite, sangue, visi deturpati, orecchie pendenti, carne
«pezzata di fetide piaghe» e la protagonista
Suor Marta, posseduta da una bestia latrante, invoca:
«ora la sua voce ha una eco nella mia carne: ecco, io la vedo.
È là: c'è una smania nelle sue labbra».
La carne è sì
condanna ma può volgersi anche in liberazione, al punto che la religiosa
pregherà Dio di impossessarsene per darle pace: «Se per me c'è
salvezza, entra nella mia carne».
È proprio nel teatro che
tutto appare con immediatezza sconvolgente ancora di più che nella prosa. La
corporalità, la corposità diventano programma espressivo, tant'è che
Testori parla di teatro come «luogo non
scenico ma verbale» che consiste in «una
specifica, buia e fulgida, qualità carnale e motoria della parola».
E sempre in quel breve manifesto dal titolo già in
sé molto significativo che è Nel ventre del teatro (1968),
Testori avrebbe precisato che solo quella parola,
«orrendamente (insopportabilmente)
fisiologica», era capace di porre all'uomo le domande radicali
della vita, aspettando che ne scaturisse «non un concetto ma un
suono: il "verbo"».
Questa oltranza prima di tutto
espressiva, come ha scritto Giovanni Raboni in una memorabile
introduzione alle sue opere, imponeva a Testori l'audacia di
«andare sempre e continuamente al di là della propria stessa
audacia».
Del resto, il primo a sottolineare l'estremismo
visivo, sensuale, pittorico della prosa di Testori fu Elio Vittorini presentando
Il Dio di Roserio nella prestigiosa collana dei
«Gettoni», dove il racconto fu pubblicato nel 1954.
La
violenza, la grossolanità, la goffaggine, la fragilità dei personaggi che si
incontrano nel ciclo dei «Segreti di Milano» sono tratti
plastici che accompagnano (o sono accompagnati da) uno stile di violenta
deformazione, di costante mescolanza, di sovrapposizioni stridenti tra lingua e
dialetto, arcaismi e neologismi, gerghi quotidiani e raffinatezze letterarie,
che fanno affiorare la «grandiosa unità
sonora» (per dirla sempre con Raboni), la materia biologica,
densa e fluttuante, del linguaggio ancora prima che questo si carichi
ulteriormente, potenziando l'icasticità complessiva, di forti metafore
corporali, sessuali, sanguigne.
Certo, tutto ciò fece lo scandalo di
Testori: il violento accostamento, essenzialmente fisico, di brutalità
e passione, miseria e grandezza è al centro dell'azione
dell'Arialda, l'opera portata magistralmente in scena da
Visconti e censurata durante le recite milanesi per ragioni che
hanno a che fare non solo con «lo sfondo ossessivo e
immorale» da cui «nessun valore si
salva» ma con la carnalità espressiva del testo,
semplicisticamente qualificata come «turpitudine e
trivialità».
In realtà, non va sottovalutato che la serie di
tragedie e di delitti che vi si scatenano, prendono avvio da una carnalità
mancata: quella della Arialda Repossi, la povera camiciaia
appassita e ottenebrata dal ricordo dell'ex fidanzato Luigi,
morto per malattia senza averle fatto conoscere i piaceri del sesso.
C'è poi
la poesia di Testori, che esplode, dopo una lunga pausa creativa, con geniale
anacronismo nella metà degli anni Sessanta, riversando più
esplicitamente che altrove tutto il repertorio di carnalità visiva e stilistica,
via via mortuaria e vitale, violenta e appassionata, abominevole e sensuale
dentro l'immaginario del cristianesimo, spesso ispirate da suggestioni musicali
o pittoriche.
Le due Suite per Francis Bacon sono esemplari in tal
senso con tutti i loro disfacimenti, escoriazioni, giunture, sfaceli del ventre,
decessioni della carne, nudità ardenti, carcasse, parti sanguinanti, crapule,
bave, labbri cadenti. E dove spesso e volentieri il tutto si
coniuga con figurazioni sacre come quella della Crocefissione, dove Cristo è
«una specie di macello», deformato, straziato: «lo scheletro di Dio / precipita
/ sugli ani», «Senza respiro / l'asfissia di Cristo / sfonderà i tuoi crani».
Nel fluviale poema I Trionfi -
dove sono peraltro numerose le variazioni su «carne»,
«carni» e
«incarnare» - troviamo «il
magma ribollente e luminoso delle passioni e della materia, i drammatici
movimenti della coscienza reificata, le contraddizioni d'una meditazione
religiosa nel grembo del mondo materico» (per citare il
segnalibro che accompagnava il volume alla sua prima uscita nell'edizione
Feltrinelli). La poesia sarà per Testori una fase di transito
verso gli inabissamenti successivi dentro la prima e la seconda trilogia.
In una bellissima intervista a Luca Doninelli, spiegava il suo punto di
vista sulla vita e sul linguaggio dicendo che si tratta non di questioni
filosofiche, come in genere si pensa, ma fisiologiche.
Di Stefano Paolo
Corriere della Sera, 17 Febbraio, pag. 47