VILLA DEI VESCOVI

Luisa la "Divina Marchesa" e i Casati a Venezia

Divine si nasce

Luisa Casati, professione Donna Fatale, fra mondanità e cultura

Quegli occhi, verdi, grandissimi, sapientemente sottolineati da un trucco sempre più accentuato, incanteranno e inquieteranno altri artisti,
dai pittori Alberto Martini e Van Dongen, Ignacio Zuloaga e Augustus John e Fortunato Depero,
a fotografi del calibro di de Meyer, Carl Reitlinger a Man Ray a Cecil Beaton
di Giorgio Boatti

 

Giovanni Boldini Ritratto della Marchesa Casati 1914

 

L’opera, custodita alla galleria nazionale d’Arte Contemporanea di Roma, è quasi un “manifesto” della personalità “elettrica” e imprevedibile di una protagonista della Belle époque, celebre per il suo anticonformismo ma anche per la sua amicizia con intellettuali di fama come Gabriele D’Annunzio. Alla propria immagine la Marchesa era attentissima. Quasi parallelamente al legame con La Casati che fa girare la testa a tutta la città.
Di lei, il minimo che si può dire è che non è passata inosservata né negli sbirluccicanti anni della Belle Epoque né nei luoghi dove decideva di catapultarsi trasformandoli, di volta in volta, nei palcoscenici naturali alle sue esibizioni. La prima volta che arriva in pompa magna a Venezia, dove ha appena acquistato il palazzo Venier dei Leoni per farvi la dimora della sua liason sentimentale con D'Annunzio, sbarca in piazza San Marco avvolta in un mantello di pelliccia.
Sotto, ovviamente, solo essenze inebrianti che si fa preparare da un misterioso parfumeur orientale. Cammina a grandi falcate, tenendo al guinzaglio preziosamente ingioiellato il suo ghepardo preferito. Il suo fidatissimo servitore di colore la segue e, visto che s'avvicina il crepuscolo, illumina i suoi passi con un paio di torce accese.
E garantisce la visibilità della Divina Marchesa. Così la marchesa Casati veniva appellata dal "vate".
Ma le folle veneziane non hanno ancora assistito al meglio. Vale a dire le sfilate delle duecento gondole che passano sul canal Grande, dal palazzo della Marchesa a ritirare gli ospiti da condurre, in un luminoso corteo notturno, sino a piazza San Marco.
La piazza più di una volta viene utilizzata dalla gentildonna - con l'avallo del sindaco Grimani e delle massime autorità - come sala da ballo a uso privato.
Carabinieri in alta uniforme e drappelli di ufficiali hanno l'ordine di tenere discostata la folla, sia dalla parte del Palazzo dei Dogi che da quella dell'Orologio. Poiché le feste sono sempre a tema gli aristocratici giunti da ogni capitale d'Europa, e che s'affollano tra i portici e i tavoli addobbati, a volte possono portare crinoline e parrucche incipriate, panciotti ricamati e maschere fantasiose mentre altre volte paiono uscire da qualche capitale mediorientale. Con un gran trionfo di veli, caffettani e burnus.
La più elegante ovviamente è sempre lei.
Gli abiti disegnati da Léon Backst e realizzati con tessuti, prevalentemente velluti e sete, creati appositamente dalla bottega Fortuny.
E tuttavia anche le mises più preziose a volte possono risultare di troppo: in una festa d'agosto l'afa è tanta che la Marchesa - davanti a una platea di invitati e all'immenso pubblico veneziano che scruta da ogni finestra disponibile - prorompe nel grido "sto soffocando". Quindi da un tavolo afferra di colpo un affilato coltello.
Un colpo solo, giusto all'inizio della scollatura, ed ecco che l'impalpabile tunica che avvolge il magnifico corpo della padrona di casa se ne va. Sotto l'occhio impassibile di dieci servitori di colore che, accanto ai bracieri dove ardono incenso e altri aromi, battono all'unisono i gong che scandiscono l'evolversi della festa.
Per Venezia lo sbarco della Casati è una specie di giostra che fa girare la testa a tutta la città. Nel giro di una sola estate questa donna, vera forza della natura, organizza tre feste a tema, un ballo rinascimentale, una festa indù e una kermesse persiana. E poi altre performances che coinvolgono tutti i nomi che contano dell'aristocrazia, della cultura più presenzialista e mondana.
Nel palazzo dove ospita i suoi amici avvengono gli incontri più improbabili. D'Annunzio, ad esempio, s'imbatte nottetempo nel ballerino Nijinsky astro dei Balletti Russi, e quasi fosse davanti al primo saltimbanco gli intima: "Avanti, ballatemi qualcosa...". E Nijinsky, che non manca certo di temperamento, gli risponde: "E voi, perché non mi scrivete subito qualcosa?".
Solo l'intervento provvidenziale della padrona di casa pare abbia evitato uno scontro al fulmicotone tra i due. Nell'era della Marchesa a Venezia i confini tra la dimora privata della nobildonna e i pubblici monumenti e le piazze della città sembrano sfumare. S'accendono gli incontri più vertiginosi e prendono corpo gli spettacoli più imprevedibili. Sempre Nijinsky, si trova a intrecciare un'"impromptu pas de deux" con l'odiatissima Isadora Duncan. La mitica ballerina, superati i trenta, ha cercato invano di farsi cooptare nei Balletti Russi del patron di Nijinsky, Djaghilev.
Finito il ballo con il giovanissimo astro russo la Duncan gli porge la mano con affetto e quindi gli sussurra con dolce perfidia: "Che peccato che non siate stato mio alunno, avrei potuto insegnarvi a ballare...". Ovviamente questo affresco veneziano potrebbe continuare a lungo, denso di aneddoti e di immagini che sembrano venire dritti dritti, con tutte quelle fiaccole, quei costumi orientali, quelle gondole, da qualche dipinto del Tintoretto o del Carpaccio.
E chi volesse a questo punto saperne di più sui leggendari soggiorni della Marchesa a Parigi, a Roma, a Capri, a Londra, non avrebbe che da cercare, in rete, sotto il suo nome. Scoprendo come, a decenni dalla sua morte, centinaia e centinaia di siti celebrino le sue imprese, analizzino il suo stile, ripropongano la sua icona come simbolo della contaminazione tra arte e spettacolo e comunicazione che a tutti noi sembra la norma ma che ai primi anni del secolo scorso costituiva la sconvolgente anticipazione di una modernità ancora ben lontana dall'irrompere sulla scena pubblica. E oltre ai siti in Internet alla marchesa Casati sono dedicate sfilate di moda, mostre e collezioni nonché biografie talvolta accurate e travolgenti come quella che i due più ascoltati cultori dell'arte della "Divina Marchesa" - Scot D.Ryersson e Michael Orlando Yaccarino - hanno appena pubblicato. Il titolo è "Infinita Varietà.
"Vita e leggenda della Marchesa Casati" è il volume uscito presso l'editore Corbaccio. Uno dei pregi di questi recentissimi biografi americani della Marchesa è di avere delineato, oltre alla sua fantasmagorica parabola esistenziale (che la Casati concluderà sottotono a Londra nel 1957, in povertà totale ma con una specie di invasata vertigine esistenziale, capace sino all'ultimo di folgoranti intuizioni) anche il ruolo di ispiratrice e musa di un largo stuolo di artisti.
Di D'Annunzio si è detto. Bisogna aggiungere che il loro legame, pur evolvendo nel corso degli anni e ripudiando ogni canone di fedeltà o di quotidianità condivisa, perdurerà nel tempo. Il poeta, che si è ispirato alla giovane Casati per il romanzo "Forse che sì forse che no" pubblicato nel 1910, l'accoglierà più volte, negli anni Venti, nel suo Vittoriale, sul lago di Garda.
Divine si nasce.
È stata quella che oggi si direbbe la più grande icona della Belle Epoque. Ricca, affascinante, misteriosa, amante del lusso, dello sfarzo, del colpo di scena, la Marchesa Luisa Casati Stampa godeva di una visibilità (ancora un termine odierno) che farebbe invidia a tante sue epigone contemporanee. Non è da tutti, ammettiamolo, denudarsi con un colpo di coltello durante una festa, in una soffocante serata estiva, con la massima (e dunque elegantissima) nonchalance.
Oggi che gli eccessi sono diventati pane quotidiano, prodotto seriale e quindi trascurabile, le trovate della Marchesa appaiono per quello che sono: l'opera di un genio che il nostro secolo definirebbe per eccellenza mediatico. Per la terza volta, nello spazio di poche righe, siamo costretti a ricorrere allo stesso concetto, quello dell'ante litteram. A questo punto ci prende un dubbio: che le parole nascono quando il meglio delle cose che designano già non esiste più...
D'Annunzio.

La sposatissima marchesa (si separerà dal marito, il Marchese Casati Stampa di Soncino, dopo undici anni di matrimonio, nel 1914) stringe un forte rapporto con Marinetti, il profeta del Futurismo. Sia a Roma che a Milano la Casati ovviamente spalleggia l'irruzione della rivoluzione futurista e generosamente aiuta i principali esponenti di questa corrente, sovvenzionando pubblicazioni e acquistando dipinti. Intensissimi gli incontri con pittori di grande nome ai quali la Marchesa s'affida perché la sua immagine rompa la prigionia del tempo e perduri nelle memoria di chi verrà dopo. Chi visita la Galleria d'Arte Moderna di Villa Borghese a Roma s'imbatte in uno splendido ritratto di giovane donna con levriero che aveva fatto epoca al Salon di Parigi del 1909. Ovviamente la giovane donna è Luisa Casati, immortalata da Giovanni Boldini in un'opera densa di movimento e di inquietudine. Il pittore e la Marchesa si sono conosciuti a Venezia, intermediario D'Annunzio, al Danieli.
Mentre s'apprestano a sedersi a tavola la collana della donna si rompe e diverse dozzine di perle finiscono sotto la tavola. E qui sotto, mentre car-poni le recuperano, il pittore incontra per la prima volta il viso della donna: "mi trovai faccia a faccia con lei e vidi, per la prima volta da vicino, i suoi occhi immensi".
Quegli occhi, verdi, grandissimi, sapientemente sottolineati da un trucco sempre più accentuato, incanteranno e inquieteranno altri artisti. Dai pittori Alberto Martini e Van Dongen, Ignacio Zuloaga e Augustus John e Fortunato Depero a fotografi del calibro di de Meyer, Carl Reitlinger a Man Ray a Cecil Beaton.
Quest'ultimo, diventato amico della Marchesa nei suoi ultimi anni londinesi, da lei trascorsi in un perenne trasloco da un alloggio provvisorio all'altro, verrà odiato a morte quando nel 1954 pubblica una foto non autorizzata in cui il volto della donna, ormai settantenne, mostra i segni del tempo. Era la negazione di una leggenda - di fascino, di bellezza e di incanto - che la Marchesa ha impiegato tutta una vita a costruire.
Certo, forse, tra le stelle che hanno solcato la mondanità del Novecento, qualcuna ha brillato più intensamente o più durevolmente di lei. Ma quanto all'ego la Marchesa Luisa Casati non teme paragoni. Nessuno - dei grandi artisti che la circondano, dei personaggi pubblici che la venerano e la temono, neppure il vate Gabriele d'Annunzio - alimenta il proprio ego, la bruciante esigenza di visibilità e di protagonismo, con la forza selvaggia e arcaica cui attinge questa eccentrica figlia della solidissima e sobria borghesia industriale lombarda.
Ben più della sua indubitabile bellezza, dell'intelligenza vivacissima, della nascita privilegiata e della ricchezza immensa, quello che è determinante nel fare di Luisa Amman, poi diventata Marchesa Casati, quell'icona del Novecento che è destinata a diventare, è la precoce percezione del proprio talento. Un talento che discostando altre possibili mete mira a un solo obiettivo. Fare, della propria vita, "un'opera d'arte vivente". E osservando la sua parabola esistenziale bisogna dire che ci riesce alla grande come dimostrano, a decenni ormai dalla sua scomparsa, le rievocazioni che vedono in lei l'antesignana delle dive & divine che muovono la postmodernità.
Luisa nasce a Milano il 23 gennaio1881.
In quello stesso giorno suo padre, il conte Alberto Amman, a capo di un rilevantissimo gruppo industriale che ha abbinato alle produzioni tessili anche imponenti attività finanziarie, è insignito all'Esposizione Universale di Milano della medaglia d'oro reale. Nella bella villa di Erba che costituisce la loro residenza principale gli Amman hanno spesso ospite il sovrano Umberto I che, per il noto legame con la contessa Litta, ama trascorrere lunghi periodi tra Milano e la Brianza. Facendo dellaVilla Reale di Monza la propria dimora effettiva. Opportunamente lontana dalla corte romana e, soprattutto, dalla regale consorte. Gli Amman dispongono anche di una bella abitazione nel cuore di Milano.
A poche decine di metri dal quartier generale dell'azienda di famiglia, collocato nella via Monte di Pietà, acquistano un palazzo in via Brera, praticamente all'angolo con la famosa Pinacoteca. E davanti ai capolavori lì conservati Luisa, nell'adolescenza, trascorrerà non poco tempo, attratta dalla bellezza dell'arte cui parrebbe volersi dedicare. Schizza bozzetti, si applica a tele che rispecchiano il gusto tradizionalista di quegli anni. Viene incoraggiata non solo da istitutori e insegnanti ma anche dal bel mondo che fu la musa ispiratrice per diversi artisti, frequenta il salotto di famiglia. E tuttavia quando i genitori le muoiono uno dopo l'altro in un brevissimo lasso di tempo e, neppure ventenne, si trova a essere una delle più ricche ereditiere d'Italia, la giovane donna intuisce con stupefacente veridicità il proprio destino. Con totale conoscenza di sé comprende come, nonostante gli incoraggiamenti che le vengono da maestri e adulatori, non disponga di vero estro creativo. Dalle sue mani non uscirà mai una vera opera d'arte.
L'unica missione cui si dedicherà con inflessibile determinazione è costruire la propria esistenza come fosse un capolavoro in continua evoluzione, perennemente attenta a stupire, innovare, provocare. Ogni nuovo incontro interessante polarizza la sua vorace e dispotica curiosità. Saziata questa la novità viene cancellata, non esiste più: brucerà così buona parte dei suoi legami di affetto e di amicizia. Nel fronteggiare la sua intensa scommessa esistenziale divora l'immensa fortuna ereditata.
Quasi conoscendone anticipatamente la conclusione non accetta limiti. Si attiene a quel precetto di Graham Greene che ispira la vera aristocrazia, quella dell'anima: "Bisogna abbandonarsi al lusso. La povertà ha la tendenza a colpire improvvisamente come l'influenza.
E' saggio disporre di bei ricordi per i tempi bui...."
 
LA FAMIGLIA DEI MARCHESI CASATI
Quando si parla di una nobile famiglia che ha legato il suo nome a Muggiò non si può fare a meno di pensare ai Casati. Arrivarono a Muggiò nel Quattrocento, quando Pietro, figlio di Giacomo, fu costretto ad andarsene da Milano e tra il 1408 eil 1457 si rifugiò a Monza e nella zona acquistò vasti terreni. I possedimenti vennero estesi anche grazie ad uno strumento allo consueto per ampliare i patrimoni, quello del matrimonio. Fu così che Giovanni Battista Casati nella seconda meta del 1500 sposò Angela Scorpioni, figlia di un’altra nobile famiglia che a Muggiò aveva vasti possedimenti, che naturalmente la giovane portò in dote allo sposo.
Proprio alla metà del ‘500 abbiamo le prime prove certe dell’esistenza a Muggiò della villa Casati con una sua architettura ben più importante delle povere case dei contadini e con un mistero che si trascina fino ad oggi: un pozzo profondo una ventina di metri nel quale la leggenda vuole che i nobili Casati ed i loro amici di bisbocce gettassero le imprudenti e impudiche fanciulle che avevano allietato le feste. Nulla di storico, certo,. Ma è altrettanto sicuro che la famiglia Casati nei secoli ha sempre intrecciato la sua vita con le vicende storiche e politiche dell’Italia e anche con storie d’amore e di sesso dai contorni forti.
Dunque se l’immaginazione popolare in ogni parte del mondo vuole che i pozzi nell’antichità servissero ai proprietari dei castelli più che per tirare fuori acqua, per gettarvi dentro fanciulle o nemici, rivali d’amore o avversari politici o concorrenti d’affari, il mistero e la leggenda del pozzo di villa Casati acquista un sapore del tutto particolare alla luce di quel che sarebbe successo secoli dopo.
Un contributo tutto particolare diedero i Casati alla lotta di Indipendenza nazionale. Il periodo napoleonico aveva liberato energie produttive e sociali e in questa parte della Brianza erano aumentati di numero e di importanza agli artigiani. Tessili, che già esistevano da tempo, e mobilieri. Si era affermato con l’arrivo deifrancesi un modo di pensare nuovo, più libero e consono alla volontà di cambiare lastruttura economica di questa zona molto dinamica della Lombardia.
I Casati, che a Muggiò avevano la loro villa, ma che stavano anche a Milano a continuo contatto con i settori più dinamici della società lombarda, furono tra i primi ad aderire fattivamente alle idee di indipendenza nazionale. Ma il primo personaggio della famiglia ad essere pesantemente coinvolto nella lotta antiaustriaca fu un parente acquisito, il conte Federico Confalonieri che aveva sposato Teresa Casati, sorella di Gabrio e di Camillo.
Confalonieri aveva fondato nel 1819 il periodico Il Conciliatore, sul quale scriveranno tra gli altri giovanni Berchet e Silvio Pellico, Carlo Cattaneo e Luigi Porro Lambertenghi e sognava di costruire una federazione con il Piemonte. Era anche un uomo d’affari concreto e aperto al nuovo, al punto che insieme ad Alessandro Visconti fece costruire il primo battello a vapore che navigò sul Po. Ma la sua fama è legata alla battaglia per l’indipendenza. Nel 1821 aveva cercato, insieme ad altri patrioti, di convincere il principe Carlo Alberto di Savoia a varcare il Ticino, come immaginò in una sua poesia Alessandro Manzoni, e a conquistare la Lombardia.
Due erano i gruppi di patrioti che premevano sul Savoia. Il primo era quello dei carbonari, guidato da Silvio Pellico e composta tra gli altri dal musicista romagnolo Pietro Maroncelli, dal Berchet e dal conte Giacomo Laderchi.
Il secondo, quello dei federati, faceva capo al Confalonieri. Gli uni e gli altri pensavano di poter trovare un sostegno in Carlo Alberto, erede al trono perchè nè Vittorio Emanuele I° nè suo fratello Carlo Felice avevano figli maschi, che in gioventù era stato vicino ai carbonari. Effettivamente il 6 marzo 1821 Carlo Alberto incontrò cinque congiurati e promise loro che si sarebbe fatto sostenitore delle loro richieste davanti al re, dopo che fossero scoppiati moti nella notte tra il 7 e l’8 marzo. Ma subito dopo Carlo Alberto fece marcia indietro. L’insurrezione a Torino venne bloccata, ma non si fece in tempo a fermare quella di Alessandria. Tutto fallì e Pellico, Maroncelli ed altri vennero arrestati, processati a Venezia e condannati a morte, ma poi la pena venne commutata nell’ergastolo da scontarsi nel tremendo carcere dello Spielberg. Confalonieri venne arrestato solo il 13 dicembre. Era rimasto a casa sua nonostante che lo stesso comandante delle forze austriache in Lombardia conte Bubna gli avesse inviato la moglie con il suggerimento di fuggire. E quando arrivarono le guardie per arrestarlo, Confalonieri scoprì che qualcuno aveva murato il passaggio segreto attraverso il quale sperava di fuggire. Molti si sono chiesti perchè il conte non era scappato prima.
Eccesso di fiducia nell’importanza del proprio nome? Imprudente gioco con gli austriaci? O un romantico correre incontro al proprio destino, qualunque esso potesse essere? O un diverso romanticismo, la volontà di non allontanarsi dall’amore di una donna che non era la moglie?
Fatto sta che Confalonieri venne arrestato mesi dopo Pellico e Maroncelli e condannato a morte al processo di Venezia. Teresa Casati fu sempre con lui, anche quando l’inquisitore Antonio Salvotti le mostrò un pacco di lettere che un’amante aveva scritto al marito. “Non ho nulla da dichiarare” rispose Teresa all’inquisitore che la spingeva a denunciare Confalonieri, a pagare tradimento con tradimento. Non solo. Quando il conte fu condannato a morte, Teresa con Gabrio andò a Vienna e fece di tutto per ottenere dall’Imperatore la grazia. Che alla fine arrivò, anche se sotto forma di ergastolo da scontare allo Spielberg.
La dedizione di Teresa andò oltre. Mentre il marito attraversava le sue prigioni, la moglie cercava in ogni modo di aiutarlo e trovò persino una via clandestina per scambiarsi lettere e notizie. Fino a quando nel 1830 seppe che ormai, nonostante la giovane età, stava per morire. Allora decise che non avrebbe potuto dare a Federico questo dolore che avrebbe dovuto continuare il più possibile a donargli la consolazione di una lettera di tanto in tanto. E cominciò a scriverne in quantità, lasciando l’ordine, come in un estremo testamento amoroso, che ogni mese avrebbero dovuto spedire una di quelle lettere senza tempo e che parlavano d’amore e di vita normale al prigioniero dello Spielberg. E così fu, tanto che per qualche mese Confalonieri non seppe della morte di Teresa ed anzi riuscì a mandarle anche qualche risposta, in una sorta di dialogo amoroso tra due diverse morti. Fino a quando, nel febbraio 1831, a 5 mesi dalla scomparsa di Teresa, entrò nella cella del conte un commissario che, compunto, comunicò: ”Numero quattordici: Sua Maestà L’imperatore si degna di farvi sapere che vostra moglie è morta”. E se ne andò richiudendo la porta.
Teresa venne sepolta nel cimitero di Muggiò e la sua lapide fu scritta dall’amico Alessandro Manzoni. “Teresa, nata da Gaspare Casati e da Maria Origoni il XVIII settembre MDCCLXXXVII maritata a Federico Confalonieri il XIV ottobre MDCCVI ornò modestamente la prospera fortuna, l’avversa soccorse con l’opera e partecipò con l’animo quanto ad opera e ad animo umano è conceduto, consunta ma non vinta dal cordoglio, morì sperando nel Signore degli afflitti il XXVI settembre MDCCCXX. Gabrio Angelo Camillo Casati alla sorella amantissima e amatissima eressero e a sè prepararono questo monumento per riposare tutti un giorno accanto alle ossa care e venerate”.

Federico Confalonieri rimase allo Spielberg 15 anni, poi fu graziato, ma a patto che se ne andasse in esilio in America subito, senza nemmeno potersi fermare a pregare sulla tomba della moglie. Dallo Spielberg fu mandato direttamente alla nave che doveva portarlo al di là dell’Oceano e solo Alessandro Manzoni riuscì ad intercettarlo con un suo libro dono e con una dedica affettuosa: “Che può l’amicizia lontana per mitigare le angosce del carcere, le amarezze dell’esilio, la desolazione di una perdita irreparabile? Qualche cosa quando preghi; che, se sterile è il compianto che nasce nell’uomo e finisce con lui, feconda è la preghiera che vien da Dio e a Dioritorna. Milano, 23 aprile 1836”.
Dopo due anni passati in America, il conte tornò in Europa, malatissimo. E quando era ormai chiaro che sarebbe morto di lì a poco, l’Austria gli permise di tornare anche a Milano, dove arrivò con una nuova moglie, l’irlandese Sofia Ò'Farrel, che aveva vissuto tanti anni alla corte di Danimarca. Molti non gli perdonarono questo matrimonio che interpretavano come un tradimento postumo di Teresa, quasi fosse una continuazione di quello che le aveva inflitto in vita. Al punto che Confalonieri sentì il bisogno di scusarsi, o per lo meno di spiegarsi, con Maroncelli, suo compagno di prigionia allo Spielberg, in una lunga lettera. Sofia viene descritta dal conte come una ammiratrice di Teresa e proprio per questo amata da Confalonieri. “La sua adorazione per l’angelica mia Teresa, di cui non domandava che di compiere presso di me qualche vece, non ti taccio che fimmi potentissimo impulso alla determinazione: e, quasi a consacrazione dell’espressomi suo voto, il giorno che le impegnai la mia parola, le cinsi un braccialetto dei capegli di Teresa, ch’ella serberà qual reliquia di tutta la vita. A te non fa bisogno ch’io cenni tutti i misteri di dolore e di amore, di legame tra passato, il presente, e l’avvenire che in sè racchiude questo semplice rito”.
Poi Confalonieri fa una descrizione di Sofia, colta, poliglotta, devota. Ma quella parte della lettera che parla della nuova moglie come di una pallida adoratrice di quella morta 15 anni prima, suona come una scusa per coloro che mal dicono di lui e di lei. Romantico, un pò falso e anche macabro Confalonieri, con quel particolare del braccialetto di capelli di Teresa cinto al polso di Sofia. Comunque di lì a poco il conte morì e Sofia, tenendo fede alla sua immagine di devozione totale per Federico e Teresa, fece seppellire il marito a Muggiò accanto alla prima moglie. Poi andò ospite della contessa Cristina di Belgioioso, che in precedenza aveva criticato duramente Confalonieri per i fatti del1821, e quindi tornò nel suo nord. Ma il Casati più famoso è senza dubbio Gabrio, il maggiore dei quattro fratelli.
Anche lui venne in seguito criticato dalla Belgioioso, perchè era stato nominato nel 1837 podestà di Milano dal governo austriaco, ma poi nel 1848 fu uno dei massimi responsabili delle 5 Giornate. Il 18 marzo 1848, con una coccarda tricolore sul petto, Gabrio guidò un lungo corteo popolare che si recò al palazzo del Governo di Milano dove risiedeva il governatore austiaco e lo obbligò a firmare la costituzione della guardia civica e la convocazione di una assemblea legislativa milanese, cioè in pratica i fondamenti del nuovo potere. E mentre Gabrio guidava la manifestazione, il fratello Camillo salvava dalla possibile rabbia dei milanesi la moglie del prefetto austriaco, la contessa Spaur. Gabrio venne così nominato presidente del governo provvisorio lombardo e quindi presidente del Consiglio dei ministri di Carlo Alberto, carica dalla quale si dimise quando venne firmato l’armistizio con gli austriaci.
Quando tornò Radetzki, per Gabrio si aprirono le vie dell’esilio. Dopo l’Unità d’Italia non solo tornò, ma fu il primo ministro della pubblica istruzione e nel 1859-60 elaborò e fece approvare una riforma della scuola che rimase in vigore fino al 1923.
Del resto Gabrio fu uno di quegli uomini del Risorgimento che pensavano che l’unità e la prosperità d’Italia fossero possibili solo con un alto livello di istruzione dei suoi abitanti e la riforma, pur con gli inevitabili limiti dell’epoca, cercò proprio di essere lo strumento per la formazione di una identità culturale del Paese.
Camillo Casati, oltre ad avere salvato la Spaur, è ricordato per essere stato il primo sindaco di Muggiò dopo l’Unità d’Italia, fino al 1869.
Alla famiglia Casati, come alla Isimbardi, si deve l'iniziativa dell'acquisto del quadro che ha arricchito per molti decenni la chiesa di Muggiò e che ora si trova a Milano, il “Gesù crocifisso con la Maddalena” di Francesco Hayez, dipinto nel 1827. Come siano andate le cose, lo ricorda lo stesso Hayez in un suo scritto: “Le famiglie Isimbardi e Casati, proprietarie principali del Comune di Muggiò, mi diedero la commissione di eseguire un quadro d’altare per quella chiesa, “Gesù crocefisso con la Maddalena ai piedi della Croce”; ricorso che quando mi recai a collocare al suo posto la tela, due delle signore committenti si trovarono presenti, una delle quali, la graziosa marchesa Luigi Isimbardi Litta Modigliani, gentilmente volle invitarmi a colazione”.
Ma la storia di questo quadro è particolarmente travagliata. Già a metà del 1800 cominciò ad avere problemi e lo stesso Hayez venne chiamato ad eseguire lavori di restauro nel 1864. Scrisse in quella occasione il pittore: “Giacchè amai sempre fare i confronti fra le mie opere eseguite in epoche diverse, dovetti scorgere più di un difetto, di cui voglio conservare il segreto”.
Nel 1878 però il quadro già mostrava altri problemi ed il parroco don Giovanni Ferrario, scrisse ancora una volta all’Hayez per chiedere aiuto. Mal gliene incolse: per tutta risposta ebbe una lettera di rimbrotti violenti. “Mi rincresce che il mio primo lavoro sacro al quale mi sento grandemente affezionato vada a perire. L’alito dei fedeli, è questo che lo distrugge, perchè l’alito è corrosivo. Ci vorrebbe una chiesa grande! Se può ritirarlo in casa sua almeno finchè non si provveda ad una nuova chiesa il quadro è salvo”.
Per anni i tentativi di restaurare il quadro andarono a vuoto e nel mezzo ci fu anche una polemica, nel 1892, di don Ferrario con il sindaco che aveva accusato il parroco di lasciare deperire volontariamente il dipinto. Fu solo alla fine del 1895 che finalmente il “Gesù crocifisso” venne restaurato per la seconda volta, grazie all’intervento del marchese Pietro Isimbardi, al quale don Ferrario invia una lettera riconoscente: “Ringraziamo la S:V: illustrissima per la generosità con la quale, seguendo l’esempio del compianto di lei nonno, l’illustrissimo Signor Marchese Pietro Isimbardi, ha voluto assumersi la spesa occorrente per il restauro”.
Il dipinto rimase ancora qualche decennio esposto nella chiesa, poi venne spostato dal nuovo parroco don Luigi Gadda nella sua casa, per evitare che la tela, ormai di grande valore anche economico, fosse rubata. Quindi venne spostata all’Arcivescovado di Milano, dove si resero conto che l’Hayez doveva essere restaurato per la terza volta. Si pose di nuovo il problema dei soldi, e alla fine l’operazione fu possibile grazie alla sponsorizzazione della società milanese Pro Svi.
Il quadro, restaurato per la terza volta, fu esposto nel maggio 1991 al centro culturale San Carlo di Milano. L’altro dipinto ospitato per decenni nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo era la “Madonna con bambino” che nel 1825 ornava la cappella Casati. Era opera del pittore Pelagio Pelagi, uno dei maestri dell’Hayez, architetto e scultore, oltre che pittore. Di questo dipinto si sono perse le tracce: negli anni dell’ultimo immediato dopoguerra è scomparso. Un altro dei misteri di Muggiò.
Rubato come sostengono alcuni, o venduto per pagare debiti della chiesa, come insinuano altri?

 

 

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